martedì 31 maggio 2016

Siamo malati di indifferenza

La foto di un pallone, abbandonato su una spiaggia. 

Un pallone che è stato sicuramente un compagno di giochi di tanti bambini e ragazzi, e che oggi è li, su quella spiaggia, abbandonato.

Se fossi stato indifferente, lo avrei lasciato li, perché per me sarebbe stato solo un vecchio pallone, portato dal mare, abbandonato o disperso. 


Invece l'ho visto, l'ho preso in mano, e toccandolo con la sua pelle ruvida, ho capito che poteva avere ancora tanto da raccontare, che se  forse lo avessi gonfiato, poteva ancora regalare qualche sogno a qualche bambino. 

Aveva la sua storia, il suo viaggio, la sua dignità. Ed è per questo che ho voluto fotografarlo. Per restituirgliela tutta.

Mi vengono sempre in mente le parole di Papa Francesco: "no alla globalizzazione dell'indifferenza".

Eh si, quelle parole sono testimoni del nostro tempo, un tempo che ci sta facendo ammalare, proprio di questo: di indifferenza.

Indifferenza che si insinua nella nostra vita quotidiana, e che ci spinge a non guardare più alle cose del mondo, quelle importanti, che solitamente sono le miserie, ma solo a vederle distrattamente, con una terzietà consapevole.

Ma anche a fuggire, quasi a volersi anestetizzare per proteggersi, per isolarsi e non soffrire, o anche non volersi sentire parte di quelle cose del mondo.

Si, noi fuggiamo dalle cose che non ci piacciono.

Non ci piace occuparci di questo momento epocale in cui migliaia di persone muoiono in mare per cercare una vita migliore. Ed allora restiamo indifferenti alla sofferenza che porta questi esseri umani a mettersi in viaggio per fuggire dai loro paesi d'origine, spesso per le atrocità o per le guerre che in questi paesi li spingono a rischiare la morte nei viaggi della speranza. 

E non ci attiviamo, non facciamo niente, restiamo spettatori passivi, e di queste atrocità diventiamo complici anche noi, inconsapevolmente.

Migliaia i morti del mare, una tragedia epocale che viaggia nell'indifferenza dei governi di tanti paesi, che niente fanno per poter intervenire nei luoghi dove essa viene originata.

E noi ci siamo assuefatti alle immagini, diventiamo indifferenti anche a quelle più tragiche, che servono solo a pochi momenti di consapevolezza, spesso per una ricerca spasmodica di "like" sui social, per soddisfare il nostro ego, ma che poi fanno rientrare il livello dell'attenzione verso temi molto più facili e futili da condividere.

E quell'indifferenza malata ci pervade nella vita quotidiana, dalle regole basilari che ci spingono ad ignorare una donna incinta, una signora anziana, che sui mezzi lasciamo in piedi invece di cederle il posto, piuttosto che aiutare persone in difficoltà, con quel senso civico che dovrebbe essere patrimonio genetico di una società civile, segno di un profondo disallineamento sociale. 

E l'indifferenza è contagiosa. Si propaga ad una velocità impressionante.

Si propaga anche nei Media, che prediligono prime pagine con foto di miracoli dello sport, piuttosto che di tragedie quotidiane del mare. Indifferenti anche loro che dovrebbero essere i nostri occhi sulle cose del mondo.

La cura esiste, e si chiama consapevolezza. Con il passaparola di consapevolezza possiamo curare questa epidemia devastante di indifferenza. Perché cambiare lo stato delle cose si può, insieme,  cercando soluzioni determinate e determinanti.

La consapevolezza dei governi può convincere altri governi, la consapevolezza degli esseri umani può convincere altri esseri umani.

Ma la consapevolezza nasce solo dove c'è la conoscenza delle cose del mondo, che deve essere portata agli occhi ed alle orecchie di chi deve comprenderne l'importanza. 

Ed i portatori sani di consapevolezza siamo ognuno di noi. Ognuno di noi può curare l'indifferenza. 

Allora serve che ognuno di noi, dopo aver letto queste mie righe, realizzi che l'unica strada per sconfiggere l'indifferenza è diventare portatore sano di consapevolezza.

Conto su una rivoluzione.

Di consapevolezza ovviamente.




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